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  C’era una volta tanto tempo fa…………

Questo l’incipit di tutte le fiabe, la mia, però, non è una favola, ma una delle tante vicende che coinvolsero la mia famiglia.

Una pagina di microstoria, dato che gli eventi che travolsero il mondo nel ‘900, fanno parte della storia ufficiale, cioè della storia con la S maiuscola.

   Verso la fine dell’Ottocento due giovani contadini decisero di sposarsi, anche se le loro condizioni erano molto modeste. Si chiamavano: Giovanni Bonazzi e Palmina Bregoli. Abitavano a Quartesana, un piccolo paese in provincia di Ferrara, vicino alla città.

Lui faceva il sarto, lei allevava bachi da seta, attività molto diffusa un tempo per le donne, perché permetteva di rimanere a casa a badare ai bambini e guadagnare qualcosa per sbarcare il lunario.

La famiglia si era presto ingrandita con la nascita di quattro maschi e due femmine.

Il mio racconto sviluppa la vicenda di mio babbo, penultimo dei maschi, di nome Eutimio, e della zia Berta, la maggiore delle due femmine.

   Agli inizi del Novecento mio nonno con la famiglia decise di trasferirsi in città per cercare nuove occasioni di lavoro, date le condizioni di miseria delle campagne.

Andarono ad abitare in via Pavone, una zona scarsamente urbanizzata, che confinava con gli orti dei frati Cappuccini della Croce Bianca, tuttora presente in corso Porta Po.

   Mio babbo che era nato nel 1903, aveva frequentato le scuole solo fino alla terza elementare con la maestra Alda Costa, esponente del Partito Socialista ferrarese, contraria all’entrata in guerra dell’Italia, che sarà determinante nella sua formazione di adulto.

Si alzava tutte le mattine alle cinque per potere servire messa dai Cappuccini, che in cambio gli offrivano la colazione: una tazza enorme (gamela) di caffelatte e pane raffermo.

Si recava poi in via Terranuova presso la bottega di un tipografo per fargli da garzone e imparare il mestiere. Attraversava la città due volte al giorno, mattina e sera, in qualsiasi stagione; l’ora di pranzo la passava in bottega, consumando quel poco che sua madre era riuscita a racimolare.

Conservo la foto ricordo della sua prima comunione, rilegata da lui stesso, in cui è vestito alla marinara, come era usanza di allora.

Nel 2012, quando a Ferrara ci fu il terremoto, il ritratto venne danneggiato e io lo feci restaurare: la rilegatura era persa per sempre, ma la foto del “marinaretto” si era salvata.

   Allo scoppio della I Guerra Mondiale, Giuseppe, il fratello maggiore, fu arruolato e dovette partire per il fronte. La madre piangeva quando si parlava di lui, perché i congedi erano molto difficili e quando tornava a casa non voleva più ripartire. Raccontava della vita in trincea, dei compagni che morivano accanto a lui, dei corpi maleodoranti che si ammassavano, rosicchiati dai topi. Infine della influenza “Spagnola”,  che mieteva più vittime della guerra.

La sua mansione era quella di guastatore dei “cavalli di Frisia” in filo spinato, ma le tronchesi di cui era dotato non tagliavano. Per tutti questi motivi, quando la licenza era finita, si nascondeva, non voleva più partire, col rischio di essere fucilato come disertore. Era solo un ragazzo e aveva paura; la notte non riusciva a dormire perché soffriva di incubi.

Erano molti i giovani che dovevano lasciare il fronte, perché affetti da questo disturbo di tipo psichiatrico, per questo si presentò la necessità di individuare un luogo isolato, ma vicino alla città, per ospitare questo genere di malati. La scelta cadde sulla residenza estiva della curia, quella che oggi ospita “La Città del Ragazzo”, opera Don Calabria. Questo reparto dell’ospedale fu diretto dal famoso psichiatra Professor Boschi, che studiò tale patologia e si confrontò con studiosi di altri paesi.

Qui vennero ricoverati anche GIORGIO DE CHIRICO, ALBERTO SAVINIO, CARLO CARRA’fondatori della pittura metafisica a Ferrara nel 1917. Ecco perché nel dipinto di De Chirico “Le Muse Inquietanti” come sfondo dei manichini si staglia il Castello Estense.

   Nel 1918 la guerra finì, ma la miseria continuò a farsi sentire.

I reduci, cui era stato promesso un posto di lavoro purché resistessero dopo Caporetto, non lo trovavano: le campagne dopo quattro anni di guerra e di abbandono, non producevano; le industrie dovevano convertire la produzione di guerra in produzione di pace, quindi non potevano assorbire manodopera.

Il malcontento creava disordini e proteste, con occupazione di terre e di fabbriche. Per ristabilire l’ordine si ricorse alla violenza, assoldando squadre di facinorosi pronti a tutto: gli “squadristi”, armati di manganello, che seminavano il terrore fra la popolazione.

Era il fascismo.

   Mio babbo fu antifascista da subito e riuscì a non prendere la tessera del Partito Fascista grazie al suo datore di lavoro, che gli aveva insegnato non solo il mestiere di tipografo, ma gli ideali in cui credere.

L’iscrizione al Partito Nazionale Fascista era obbligatoria, altrimenti si perdeva il posto di lavoro.

   Nel 1925 si instaurò la dittatura.

Mio babbo per essere meno sorvegliato decise di mettersi in proprio e con suo padre Giovanni, che fungeva da titolare, aprì una rivendita di legna e carbone in via Ocabaletta.

   Erano gli anni trenta. Le due sorelle si erano affermate come sarte e la zia Berta si era sposata con un giovane ebreo di famiglia benestante: Renato Finzi.  

Nel palazzo di loro proprietà, sito all’inizio di via Giuoco del Pallone, abitava anche il fratello Enzo, sposato con due bambini: Cesare e Manlio. Il suo, però, non era un matrimonio misto come quello di Renato, perché aveva sposato una ragazza anche lei ebrea.

Al primo piano abitava il fratello con la famiglia; al secondo la zia Berta con Renato e i genitori di lui; al terzo la servitù, in una specie di sottotetto, che oggi chiameremmo mansarda. Il pianterreno, invece, era occupato da botteghe: una ospitava un tappezziere con attiguo il laboratorio.  L’altra, che faceva angolo con via delle Scienze, era occupata da un’osteria-trattoria, che avrà un ruolo determinante nella nostra storia, perché c’era anche l’abitazione di chi la gestiva.

Nel frattempo si era sposato anche mio babbo e aveva avuto una bambina a cui era stato dato il nome Graziella.

Come passarono quegli anni fino allo scoppio della II Guerra Mondiale? In una apparente tranquillità.

Mussolini perseguitava gli avversari politici o col carcere o col confino, in pratica, eliminandoli fisicamente. Le riviste specializzate continuarono a pubblicare articoli e studi sulla razza e sull’antisemitismo.

Gli antifascisti agivano in clandestinità., preparandosi a un futuro riscatto.

D’estate si passava qualche giorno di vacanza a Rimini come dimostra una vecchia fotografia, che ritrae alcuni miei famigliari vicino al lampione del lungomare; in cima ci sono due bimbi festosi: mia sorella Graziella, con lunghe trecce, e Cesare Finzi.

Sia mia sorella che Cesare non frequentavano le scuole pubbliche per motivi di opportunità. Cesare era nato nel 1930, per cui i genitori avevano preferito che frequentasse la scuola ebraica di via Vignatagliata, vicino a casa, con la promessa che quando avesse compiuto otto anni, avrebbe frequentato la scuola pubblica come tutti i suoi amici.

Mio babbo, invece, aveva scelto per mia sorella, nata nel 1933, la scuola privata delle suore di Piazza Ariostea a Palazzo Rondinelli, perché non aveva l’obbligo di partecipare alle sfilate del sabato fascista in divisa da “Piccola Italiana”.

 

   L’8 settembre 1938 in Italia vennero emanate le Leggi Razziali; gli ebrei dovevano lasciare ogni incarico nelle pubbliche amministrazioni:  banche, scuole, università, uffici pubblici; erano vietate le libere professioni e i commerci. Gli studenti venivano

allontanati  dalle scuole di ogni ordine e grado; le università erano loro interdette.

   Cesare, che nel frattempo aveva compiuto otto anni, era ancora in montagna con la famiglia. Ogni mattina, come era solito fare, si recava all’edicola per comprare il giornale per il papà.

Ma già il 5 settembre la prima pagina de “Il Corriere della Sera” annunciava a caratteri cubitali:: “Insegnanti e studenti ebrei esclusi dalle scuole pubbliche e pareggiate”. Lo sconforto e la delusione da cui venne preso Cesare a quella lettura furono inimmaginabili!!!! Cominciò a piangere e a correre verso il papà, che cercò di consolarlo, dicendo che gli amici poteva frequentarli dopo le lezioni e che non era un problema così grande.

In qualche modo riuscì a tranquillizzarlo, ma troppe erano le cose che non capiva e che per questo gli davano un senso di insicurezza, che prima non aveva mai percepito.

Dopo alcuni giorni tornò a Ferrara e il pomeriggio, come il solito, si recò al parco Massari con la mamma: finalmente poteva incontrare i suoi compagni!

Cominciò a sbracciarsi da lontano, ma non vide lo stesso entusiasmo da parte loro. Anzi. Man mano che si avvicinava, loro si allontanavano. Era una nuova struggente delusione che lo colpiva!

Solo allora ebbe la netta sensazione che nulla sarebbe stato come prima, ma non riusciva a capire perché.

Ricominciò a frequentare la scuola ebraica di via Vignatagliata, dove insegnava tra gli altri Giorgio Bassani, che si era laureto all’università di Bologna nell’autunno del 1938, ma non avrebbe mai potuto esercitare.

   Al di là di queste vergognose restrizioni, non ci furono in Italia delle vere e proprie persecuzioni fino all’8 settembre 1943, giorno in cui fu reso noto che il Generale Badoglio aveva firmato l’armistizio con gli Anglo-Americani, che erano sbarcati in Sicilia e liberato l’Italia meridionale. Mussolini, alleato di Hitler, aveva fatto entrare in Italia le truppe tedesche, che, con la firma dell’armistizio, si trasformarono di colpo in occupanti.

Cosa era successo?

Nel 1939 Hitler invadendo la Polonia aveva dato inizio  alla II Guerra Mondiale e in pochi mesi occupò la Francia, arrivando a Parigi. Poiché doveva trattarsi di una guerra-lampo, nel 1940 anche l’Italia entrò in guerra a fianco alla Germania. Mussolini e il suo esercito mal attrezzato e  mal guidato raccolsero solo sconfitte, al punto che il 25 luglio 1943 venne sfiduciato dal Gran Consiglio del Fascismo e arrestato.

Dopo vent’anni cadeva la dittatura.

Scoppiò in tutta la penisola un grande entusiasmo, ma ben presto il disinganno  subentrò all’illusione: Mussolini, liberato dai tedeschi al Gran Sasso, fu messo a capo  della Repubblica Sociale Italiana, un governo fantoccio in mano alle S.S., con sede a Salò sul Lago di Garda.

   Da qui il momento più buio della nostra storia; abrogate le leggi razziali italiane, entrarono in vigore quelle tedesche: cominciarono le persecuzioni degli ebrei e il loro sterminio. Cominciò la guerra civile e la lotta armata della Resistenza.

   Mio babbo cercò di persuadere molti ebrei a scappare: alcuni lo ascoltarono; altri, increduli, non si capacitarono di quanto stava per succedere.

Lo zio Renato organizzò la sua fuga appena in tempo. Di notte i carabinieri vennero per catturarlo e bussarono con violenza al partone. La signora che gestiva la trattoria, sapendo di cosa si trattava, cercò di perdere tempo prima di aprire. Quei  pochi minuti  furono provvidenziali per lo zio Renato: legato a una corda che teneva già pronta, saltò sui tetti e si dileguò.

Pochi giorni prima era andato via anche il fratello con la famiglia, approfittando di un ultimo treno che avrebbe dovuto portarli al sicuro nelle Marche, oltre il fronte.

Il treno, invece,si fermò per sempre a Ravenna. Qui trovarono rifugio per la notte presso la famiglia Muratori, conosciuta occasionalmente l’estate precedente, ma così importante per la loro salvezza.

Qui, nel gennaio 2020 all’età di novant’anni, portati benissimo, Cesare Finzi ha ottenuto la cittadinanza onoraria.

   Mio babbo aveva cercato di convincere a fuggire altre due famiglie ebree: i Melli-Rossi, nostri vicini che abitavano in via del Pero al numero 7; e la famiglia Zamorani a cui apparteneva la pediatra di mia sorella, che abitava in via Montebello, angolo vicolo Santo Spirito, in una bella casa stile Liberty.

I Rossi scapparono per ultimi, cercando di raggiungere la Svizzera, portandosi quel poco di oro e di denaro che poteva servire in una situazione così difficile. Di giorno stavano nascosti, si muovevano solo di notte, ma al confine le guardie li catturarono e li portarono nei centri di raccolta dove rimasero prigionieri fino  alla fine della guerra. Tornarono a Ferrara a piedi, irriconoscibili tanti erano stati gli stenti e maltrattamenti subiti. Si tratta della famiglia del poeta ferrarese Gianfranco Rossi, di recente scomparso.

La dottoressa Zamorani, invece, non capiva che i tempi erano brutalmente cambiati e che lei, medico, che non si era mai interessata di politica, sarebbe stata catturata e deportata per il solo fatto di essere nata. Cercarono di nasconderla fra i malati dell’ospedale Sant’Anna, ma fu scoperta. Morì ad Auschwitz nel 1944.

   Pur partecipando alla Resistenza, mio babbo aveva deciso di restare in città, non solo perché doveva provvedere alla famiglia che era sfollata in campagna e a suo padre anziano, ma perché era un contatto utile  per i compagni che erano in clandestinità.

Attraverso loro riuscì a sapere dove era nascosto lo zio Renato, quindi  gli trovò un rifugio sicuro per alcuni mesi presso suo fratello Dante, anche lui antifascista, che si era trasferito a Bologna, in via Francesco Barbieri, all’ingresso della città.

Lavorava in ferrovia e inizialmente abitava a Ferrara in via Arianuova nelle case dei dipendenti, ma era stato oggetto dell’attenzione degli squadristi con manganello e olio di ricino; per questo aveva deciso di trasferirsi.

Mio babbo raggiunse Bologna in bicicletta, unico mezzo di locomozione possibile, dato che il carburante era riservato ai militari.

Lo zio Renato, che era rimasto nascosto per alcuni giorni in una buca in fondo alla via in cui abitava Dante, al segnale convenuto saltò fuori e raggiunse l’ultimo piano del palazzo. Fu subito nascosto nel sottotetto, dove già avevano trovato rifugio: Italo Scalambra, futuro comandante del C.L.N.A.I. (Comitato di Liberazione Alta Italia), amico di mio babbo; e Giuseppe Dozza, primo sindaco di Bologna dopo la Liberazione.

Dante, che aveva assunto il nome di “PAGNAGA”, aveva facilità di movimento anche di notte, in quanto ferroviere macchinista sulla linea Bologna-Porretta- Pistoia.

Un tempo i treni erano alimentati a carbone, per cui le caldaie, al massimo delle calorie, mettevano in moto le turbine che trasformavano il calore in movimento. Era un’operazione che comportava molto tempo, allora approfittava dei turni di notte per legare i partigiani sotto la locomotiva e portarli dai compagni in montagna.

In questo modo, aiutò anche molti ebrei, tra cui lo zio Renato: di lui non si seppe più nulla fino alla fine della guerra. Al suo ritorno raccontò che aveva partecipato alla Resistenza facendo da staffetta partigiana a Cattolica.

   Intanto  il 10 agosto 1944 ero nata io, e poiché quella notte i partigiani  avevano liberato Firenze, mio babbo mi mise nome “Fiorenza”.

Sembrava che il fronte dovesse avanzare velocemente, invece passarono ancora lunghi mesi, i più duri, i più crudeli prima che la guerra avesse termine.

A Ferrara gli Alleati Anglo-Americani entrarono il 24 aprile 1945; era il giorno di San Giorgio patrono della città, che da diversi anni è stato anticipato al 23 aprile per uniformare la data con altri Stati europei..

Mio babbo continuava a fare la spola tra Ferrara, dove c’era il padre anziano e il magazzino, e Quartesana, dove aveva fatto sfollare la famiglia in un casolare in mezzo a campagna, oltre la strada che portava al cimitero, appartenente a un facchino che lavorava per lui.

La bicicletta gliela avevano requisita i tedeschi in ritirata, per cui utilizzava una bici da ragazzo, facendo il doppio della fatica. Un giorno, mentre tornava a Quartesana, suonò l’allarme e per la fretta di ripararsi in un fosso si ruppe una gamba; non passava nessuno, solo dopo molte ore passò un birocciante con il carro tirato da un cavallo, che sentendo le urla di aiuto si fermò, caricò lui e la bicicletta e lo lasciò davanti all’ospedale di Portomaggiore. Dato il periodo di guerra, si trovò in un unico stanzone dove un giovane medico faceva partorire le donne, curava i feriti, operava i malati, e gli ingessò la gamba.

   La storia della zia Berta fu più dolorosa e ancor più complicata.

Lei e il marito gestivano una cartoleria situata in via Mazzini. Era un grande negozio che, oltre ogni tipo di carta, vendeva profumi, saponette di varie fragranze, matite colorate, quaderni, penne stilografiche costosissime, e ogni tipo di pennini.

Sia i ragazzi delle scuole, sia gli impiegati degli uffici per scrivere usavano delle cannucce, alla cui estremità andava infilato un pennino che di tanto in tanto veniva intinto nell’inchiostro di un calamaio. Rammento che nelle scuole dove c’erano solo banchi di legno, sulla destra era intagliato un buco rotondo in cui andava inserito il calamaio (generalmente di vetro molto spesso, che difficilmente si rompeva). Per noi scolari il vero incubo era che una goccia di inchiostro cadesse sulla pagina del quaderno di “bella”, perciò tenevamo sempre pronta la carta assorbente.

   Quando nel 1938 furono promulgate le leggi razziali che vietavano agli ebrei anche i commerci, lo zio Renato dovette rinunciare alla sua attività. Fu allora che la zia Berta subentrò al marito nella gestione della cartoleria, perché lei era di razza ariana e il suo, un matrimonio misto. Fu incaricata dalla EGELI (Ente Gestione e Liquidazione Beni Ebraici) di proseguire la vendita fino al completo esaurimento della merce e consegnare ogni giorno metà del ricavato all’EGELI..

Si era fatta aiutare in negozio da un commesso di nome Amedeo, che fu di grande sostegno sia quando dovette chiudere il negozio nel 1944, sia alla fine della guerra, quando tutto poté ricominciare.

Furono anni molto duri, con gli occhi delle “camicie nere” sempre addosso, che vigilavano su ogni movimento. Il materiale della cartoleria fu messo in casse di legno e trasferito nel magazzino di mio babbo, dove venne seppellito sotto un cumulo di carbone. Ovviamente queste operazioni dovevano essere svolte sempre di notte, perché nessuno vedesse e potesse fare la spia. Di quando in quando, però, era necessario verificare che il contenuto non si fosse danneggiato, per cui l’operazione doveva essere ripetuta periodicamente.

La zia Berta si recava due volte la settimana a Ravenna, naturalmente in bicicletta, per andare a far visita alla famiglia Muratori, portare soldi per il cognato, la moglie e forse anche per lo zio Renato, di cui non si sapeva più nulla. Si pensava solo che avessero trovato rifugio sull’Appennino romagnolo. Si trattava di una misura di sicurezza, così se si veniva fermati, o ancor peggio. arrestati e sottoposti a interrogatorio, nessuno poteva tradirsi.

Furono anni terribili, specie qui al nord: rappresaglie, persecuzioni, vendette, guerra civile.

   Finito il conflitto mondiale, le donne, che tanta parte avevano avuto nelle Resistenza, andarono a votare per la prima volta il 2 Giugno 1946: nasceva la Repubblica Italiana e una nuova Costituzione. Alla fine di aprile finiva la guerra in Italia, il 9 maggio in Europa, il 6 agosto per il mondo intero: sei lunghi anni di “guerra lampo” erano costati all’umanità sessanta milioni di morti.

L’Italia scelse di festeggiare la Liberazione il 25 aprile di ogni anno,, per ricordare il giorno in cui fu liberata dai partigiani Milano.

C’era tutto da ricostruire, ma uomini e donne erano animati da entusiasmo, voglia di fare, desiderio di riscatto.

Il sentimento che prevaleva con più forza era quello di dimenticare: così per alcuni anni non si parlò mai di quello che era accaduto.

   Io allora abitavo in via del Pero n. 11, in una bella casa col giardino dotata di un bagno con uno scaldabagno di rame. Era a due piani: a pianterreno c’era l’ingresso con una porta a vetri che immetteva nell’ufficio di mio babbo e si affacciava sul cortile. A destra, la sala da pranzo con mobili dai ripiani di cristallo nero e un grande lampadario di Murano di color grigio- azzurro. Questa camera veniva aperta solo nelle grandi occasioni. Sempre a destra c’era la scala che portava al piano superiore e un sottoscala che io aveva trasformato in ripostiglio per i giochi e per il triciclo: qui si apriva una grande porta che dava direttamente in cucina, con mobili azzurri, un lavello di marmiglia.  Il mio angolo preferito era dotato di un tavolino con una seggiolina dove trascorrevo molte ore invernali a giocare a carte a rubamazzo e cava in camicia  con mio nonno Giovanni, che abitava con noi.

Al piano superiore c’erano le camere da letto, dotate ciascuna di una stufa “Becchi” in terra cotta.

Quando era possibile andavo in cortile per parlare con la mia amica Annamaria Marchi, attraverso la rete che ci divideva. Lei abitava al n. 9 con i nonni materni, signori Legnani, titolari della “Casa della gomma” all’inizio di via Bersaglieri del Po; con la zia Giulia e con i due fratelli gemelli, Piero e Andrea nati da poco.  Il papà di nome Giacomo, lavorava lontano e veniva a casa di rado.

La signora Flora Legnani era diventata amica di mia mamma, anche se più vecchia, soprattutto per quanto riguardava la moda, o l’arredo della casa: dalla biancheria ai servizi da tè o da caffè; al servizio  di piatti per le grandi occasioni.

Rammento che facevamo provviste di oggetti in centro: dal Toscano, per le stoviglie meno pregiate, da Spaolonzi per quelle più eleganti.

La bottega del Toscano si trovava sul “Listone” dalla parte del cinema “Nuovo”. Era una costruzione che stava al centro di Piazza Trento e Trieste, bassa, solo per negozi, costruita nel dopoguerra per incrementare il commercio. L’altra facciata era rivolta verso i portici del Duomo.

Spaolonzi, invece, era situato all’inizio di via Mazzini, su due piani, elegantissimo, pieno di cose preziose.

Una delle grandi occasioni in cui si apriva la sala da pranzo, era senza dubbio Natale cui partecipavano anche la zia Berta e lo zio Renato. Si cominciava alcuni giorni prima con i preparativi: mio babbo accendeva la stufa per scaldare l’ambiente; io e la mamma andavamo a procurarci provviste alimentari.

Compravamo i savoiardi per la zuppa inglese da Monterossi in via Vignatagliata,e io ne approfittavo per gustare un cono di panna montata; poi proseguivamo per la drogheria Bazzi, in Piazza Municipale, per acquistare i liquori (Sassolino, Strega, Alchermes) e i canditi per decorare la glassa di copertura.

Sulla strada del ritorno l’ultima tappa si faceva dalla Derna, la proprietaria della latteria di via Bellaria per il latte e il burro. Io guardavo sempre la mamma mentre preparava i dolci, perché il mio premio era “leccare” il tegame dove era stata cotta la crema. Il vero momento magico era quando decorava la glassa con i canditi: al centro veniva messo il frutto più goloso e accattivante, nonché il più grosso.

Queste operazioni si facevano l’antivigilia di Natale, perché la vigilia si preparavano i cappelletti, si apparecchiava la tavola, si cuoceva il brodo; infine la sera  si allestiva l’albero con  candeline di cera e addobbi bellissimi di vetro colorato.

Ecco il gran giorno: giungevano anche la zia Berta e lo zio Renato, ci mettevamo a tavola e la mamma cominciava a servire. Il primo era sempre lo zio Renato, così, quando si arrivava al dolce, io e mia sorella, che aveva undici anni più di me, ci vedevamo sottrarre  il candito più grande sempre dallo zio Renato. Noi non capivamo la motivazione che sottostava a questo “strano” atteggiamento di privilegiare un adulto rispetto a due bambine, perché anche se mia sorella era più grande di me, aveva pur sempre quattordici o quindici anni.

   La spiegazione la trovai da sola, crescendo. Da quando era scappato nel 1943, lo zio Renato era vissuto di stenti, di fame, di quel poco che la povera gente gli offriva, oltre alla generosità di nasconderlo e di salvargli la vita. Quando tornò a Ferrara dovette affrontare anche lo strazio di sapere quanti amici non ce l’avevano fatta.

Allora mi vergognai del mio sentimento di bambina e mi legai a lui in modo sempre più forte.

Ancora oggi mi reco al Cimitero Ebraico in via delle Vigne dove riposa vicino al muro che confina col Cimitero Monumentale  della Certosa, dove è sepolta la zia Berta.  

   Non avevo mai pensato di scrivere le mie memorie, l’occasione si presentò quando mia cognata mi chiese come la mia famiglia fosse imparentata coi Finzi.

I ricordi si srotolarono come una pergamena, freschi, vivaci, come appena vissuti.

Allora decisi di metterli a disposizione di quanti si sarebbero incuriositi di queste “storie mai raccontate”. F.B.

Grazie a Cesare e a Wally

Fiorenza Bonazzi